mercoledì 6 ottobre 2010

Claudio Di Scalzo Tellus Annuario. "Vite con ribellioni" 26 - Da Michaux al barbiere di Nodica Paolo Fatticcioni

 

                                                              Copertina di Bruno Magoni. "Bakunin". Olio su carta



LA RIBELLIONE DONGIOVANNESCA DEL PARIGINO SULL'ACQUA

L'Annuario TELLUS 26, "Vite con ribellioni, rinomate e sconosciute" lo si intende ancor meglio a partire da questo sottotitolo sulle ribellioni "sconosciute". Cioè non illustri, da microstoria, da paese, provinciali, fino a quella del Pazzo, il mio amico barbiere di Nodica, o quella di Kocìs a Carrara. E con scoperte per la filologia rivoluzionaria: Cecco Bertelli di Vecchiano, anarchico che intende partecipare alla Comune di Parigi. "Vite con ribellioni" è anche la mia fatica più ampia in materia di estetica, di rapporto con l'avanguardia, con l'arte situazionista e lettrista, con l'Art Brut, e raccoglie miei sparsi cataloghi, per la Galleria Peccolo di Livorno, dove ebbi la fortuna di frequentare e conoscere esponenti di quelle correnti secondo me tra le più corrosive in materia di arte che intende cambiare il mondo. Non riuscendoci fra l'altro. Ma, stamani, ricordare le mie frequentazioni nella campagna livornese, con Goldberg, il pittore di New York che con Pollock spargeva dripping, mi colora la giornata.  

Il volume contiene anche la "ribellione" di un baldo Maupassant nel Sud della Francia. E si sa che il nostro "toro parigino" tra un racconto e l'altro stava sull'acqua e sulle gonne delle belle donne. Altri tempi. Discorrere troppo di poesia e arte è come fare l'amore non togliendosi le mutande! Allora la letteratura era anche vitalismo, gioia, e non impotente masturbazione cerebrale. Al chiuso con Flaubert all'aperto con il nostro la scrittura incontrava il flusso vitale. Poi magari nascevano capolavori. Opere indimenticabili tra colore e la sua danza. Gli autori ci si bruciavano ad inventarle ma oggi danno ancora la scossa.  Questo m'interessa, non altro. Nell'annuario ho raccolto quelli che me l'hanno data. Claudio Di Scalzo detto Accio


Maupassant. Da“Sur l'eau”.




Saint Tropez, 12 aprile.

In mattinata, verso le otto, siamo salpati da Saint Raphaël con una forte brezza di nord ovest. Il mare, calmo nel golfo, era tutto bianco, come uno strato di saponata. Il terribile vento del Fréjus, che soffia quasi ogni mattina, sembrava incattivirsi sopra la superficie come fa una belva per dilaniare la preda, e così piccole strisce di schiuma si sparpagliavano per poi subito ricomporsi. I responsabili del porto ci avevano assicurato che le raffiche sarebbero cessate verso le undici e noi avevamo deciso di metterci in viaggio con tre terzaroli e la piccola vela triangolare. Il canotto fu deposto sul ponte ai piedi dell'albero e il Bel Ami una volta uscito dalla diga sembrò fuggire. Quantunque sguarnito quasi di vele, non l'avevo mai scoperto correre così. Si sarebbe detto che non toccasse l'acqua e nessuno avrebbe pensato che portasse nella sua larga chiglia, profonda circa due metri, una verga di piombo di milleottocento kg di zavorra, e in più tutto quello che avevamo a bordo, attrezzi, ancore, catene, canapi e mobili.

Rapidamente traversammo il golfo in fondo al quale si getta l'Argens, e come fummo riparati dalle coste la brezza cessò quasi del tutto. Là comincia la regione selvaggia, cupa e superba che chiamano tuttora il paese dei Maures. E' una lunga penisola di montagne con cento chilometri e più di spiaggia.

Saint Tropez, all'entrata del superbo golfo, già chiamato golfo di Grimaud, è la capitale di questo piccolo regno saraceno, i cui villaggi costruiti quasi tutti in cima a ripide montagne che li mettevano al sicuro dagli assalti, sono ancora pieni di case moresche con i loro archi, le loro minuscole finestre e i loro cortili interni dove hanno germogliato palmizi che ora superano i tetti. Se entriamo a piedi nelle valli sconosciute di questo singolare gruppo di montagne, possiamo scoprire una contrada estremamente selvaggia, senza strade, senza vie, senza nemmeno i sentieri, senza borghi, senza case. Di quando in quando, dopo sette o otto ore di cammino, appare una casupola abbandonata, o abitata da un'umile famiglia di carbonai.

I monti dei Maures sembra abbiano un loro particolare sistema geologico; una flora che non si trova da altre parti, la più varia d'Europa, dicono; e immense foreste di pini, di sugheri e di castagni. Tre anni fa compii un'escursione nel cuore di questo paese, e sempre la rammento, alle rovine della Certosa della Verne. Se domani sarà tempo buono, ci ritornerò. Una nuova dinamica segue il mare andando da Saint Raphaël a Saint Tropez.

Lungo tutta questa magnifica via aperta tra le foreste, sopra una spiaggia amena, cercano di dare vita a delle stazioni invernali. La prima dovrebbe essere Saint Aigulf, che ha un aspetto particolare. In mezzo al bosco di abeti, che scende fino alla marina, si aprono in tutte le direzioni suggestive strade. Neppure una casa compare, ma soltanto il tracciato delle vie ancora ingombrate da rami. Ecco le piazze, i crocevia, i boulevards. I loro nomi sono scritti su lastre metalliche. Boulevard Ruysdaël, Boulevard Rubens, Boulevard Van Dyck, Boulevard Claude Lorrain. Ci si chiede: perché tutti questi pittori? Perché? La società ha detto: qui sarà una stazione di artisti! Proprio come Dio prima di accendere il sole. La società! Nel resto del mondo non sanno quante speranze, quanti pericoli, quanto danaro guadagnato e rimesso significhi questa parola sulle sponde del Mediterraneo. La società! parola misteriosa, fatale, impenetrabile e ingannatrice. Ma in questo luogo sembra tuttavia che la società veda fiorire le sue speranze, perché ha già compratori e, i migliori, tra gli artisti. Si legge qua e là: tratto di terreno acquistato dal signor Carolus Duran; tratto del signor Clairin; tratto della signorina Croizette, ecc. Intanto, chi lo sa? Le società del Mediterraneo non sono floride: le loro speculazioni impetuose vanno a finire con terribili fallimenti. Chiunque abbia guadagnato diecimila lire in un campo, compra terreni del prezzo di dieci milioni a venti soldi il metro per rivenderli a venti lire. E disegna boulevards, conduce acque, fabbrica l'officina del gas, aspettando l'amatore. Arriva il capitombolo, non l'amatore.

Vedo lontano davanti a me delle torri e dei gavitelli che indicano gli scogli a fior d'acqua all'imboccatura del golfo di Saint Tropez. La prima torre la chiamano Torre dei Sardinaux e indica un vero banco di piccoli scogli, alcuni dei quali mostrano le loro teste brune; e la seconda l'hanno battezzata Gavitello della seppia con l'olio. Giungiamo all'entrata del golfo che s'incunea per un lungo tratto, profondamente, fra due sponde di montagne e di foreste fino al villaggio di Grimaud, costruito sopra una cima, là sul fondo. L'antico castello dei Grimaldi, un alto maniero che domina il villaggio, appare tra la nebbiolina come un'evocazione da racconto leggendario. Cessa il vento, e il golfo sembra un lago immenso e calmo dove noi entriamo pian piano approfittando degli ultimi soffi della burrasca mattutina. A dritta del nostro transito, ecco Saint Maxime, un piccolo porto bianco che si specchia nell'acqua dove la case si riflettono capovolte, ma precise come sono sulla riva: dirimpetto appare Saint Tropez protetta da un antico forte.

Alle undici il Bel Ami è ormeggiato alla sponda, a lato del vaporetto che fa servizio da Saint Raphaël. Solamente il Leone di mare, vetusto battello per piacevoli gite, e una vecchia diligenza che porta le lettere e che viaggia la notte sull'unica strada che attraversa queste montagne, mettono gli abitanti del piccolo porto tanto isolato in comunicazione col resto del mondo. E' una vezzosa e ingenua figlia del mare, una di quelle cittadine pacifiche e modeste, cresciute nell'acqua come una conchiglia, nutrite di pesci e d'aria marina e che producono marinai. Sul porto è eretta una statua di bronzo al balì di Suffren. Vi si sente l'odore del pesce e del catrame che arde, vi si sente l'odore d'acqua salsa e di barca. Sui selciati delle strade brillano come perle le squame delle triglie; e lungo i muri del porto una quantità di vecchi marinai zoppi e acciaccati che si scaldano al sole sui banchi di pietra. Di quando in quando ragionano dei loro viaggi di mare, delle loro antiche conoscenze e dei nonni dei monelli che corrono loro vicini. Hanno facce e mani aggrinzite, annerite e disseccate dai venti, dalle fatiche, dalle nebbie, dai caldi dell'Equatore e dai ghiacci dei mari del Nord, perché gironzolando per gli oceani hanno visto il sopra e il sotto di tutto il mondo, il rovescio di tutte le terre e di tutte le latitudini. Passa davanti a loro, appoggiato a un bastone, l'anziano capitano di lungo corso che comandò le Tre sorelle, o i Due amici, o la Maria Luisa, o la Giovine Clementina. Tutti lo salutano, come i soldati che rispondono all'appello, con una litania di buongiorno, capitano! Modulati in diversi toni. Siamo in un paese di mare, cittadina di gente per bene ricca di sale e di coraggio che combatté in tempi lontani contro i saraceni, contro il Duca d'Angiò, contro i corsari barbareschi, contro il Connestabile di Borbone o Carlo V e il Duca di Savoia e il Duca di Ēpernon.

Nel 1637 gli abitanti, i padri di questi tranquilli borghesi, respinsero senza alcun aiuto, una flotta spagnola; e ogni anno si rinnova, con vivissimo ardore, un simulacro dell'attacco e della difesa che riempì la città di panico e di urla e ricorda in modo singolare i grandi divertimenti popolari del medioevo. Nel 1813 la città respinse allo stesso modo una flottiglia inglese. Oggi pesca. Pesca i tonni, le sardine, i saraghi, le aragoste, tutti pesci tanto graziosi di questo mare azzurro, e nutre essa sola una parte del lido.

Dopo essermi cambiato gli abiti andai sulla riva; sentii suonare mezzogiorno e vidi due uomini attempati, scrivani di notaio o di avvocato, che se ne andavano a desinare, molto simili a cavalli da tiro liberati un momento affinché mangino l'avena in fondo al sacco.

Oh libertà! Libertà! Unica felicità, unica speranza e unico sogno! Fra tutti gli umili di tutte le classi, di tutti gli uomini che quotidianamente combattono l'aspra battaglia della vita, gli scrivani sono i più da compatire, sono i più malmessi. Questo non si conosce né lo si crede; perché gli scrivani sono impotenti a lamentarsi, a ribellarsi, restano legati, imbavagliati nella loro stordente pratica e basta. Eppure hanno studiato qualcosa, conoscono la legge e sono forse baccellieri. Ricordo a questo proposito questa dedica di Vallès: "A tutti coloro che nutriti di greco e di latino sono morti di fame". Sapete quanto guadagnano questi miserabili? Una manciata di franchi l'anno. Impiegati nei tetri uffici, impiegati nei grandi ministeri, devono leggere ogni mattina sulla porta delle loro stanze ridotte a prigioni i celebri versi di Dante: "Lasciate ogni speranza o voi che entrate". Aprono la porta una prima volta a vent'anni e vi restano fino ai sessant'anni e forse più, e durante questo lungo periodo mai nulla avviene di nuovo per loro. Tutta quanta la loro esistenza trascorre nei piccoli uffici malinconici, sempre invariabili, tappezzati di buste verdi. Vi entrano giovani, nell'età delle ardite speranze; e vi escono vecchi, vicini a morire. La grande mole di ricordi che noi raccogliamo durante la vita, gli avvenimenti imprevisti, gli amori dolci o tragici, i viaggi avventurosi, i molteplici casi di un'esistenza libera, sono sconosciuti a questi forzati. Tutti i giorni, tutte le settimane, tutti i mesi, tutte le stagioni, tutti gli anni si rassomigliano. Alla stessa ora si arriva, alla stessa ora si fa colazione, alla stessa ora si esce; e questo dai venti ai sessant'anni. Quattro avvenimenti soltanto fanno epoca: il matrimonio, la nascita del primo figlio, la morte del padre e della madre; nient'altro; piano... gli avanzamenti! Non sanno niente della vita ordinaria gli scrivani, niente del mondo. Ignorano le briose giornate quando il sole inonda le vie e il girovagare nei campi, perché non possono uscire prima dell'ora fissata dal regolamento.

Si rendono prigionieri alle otto del mattino; e il carcere è aperto alle sei del pomeriggio, quando imbrunisce. Ma in compenso ogni anno per quindici giorni c'è il diritto, diritto mal digerito dal capoufficio che impone il mercanteggiamento e i sottesi rimproveri, di restare chiusi in casa; infatti dove potrebbero andare senza danaro per le ferie? Il legnaiolo salendo sugli alberi ha una sua privata altezza, il cocchiere gira per le strade, il macchinista del treno attraversa boschi e pianure e montagne, si sposta continuamente dalle periferie delle città al vasto orizzonte azzurro dei mari. L'impiegato non lascia mai l'ufficio, e in esso sta come salma vivente nella bara; e nel medesimo piccolo specchio in cui si è guardato da giovane, con i baffi biondi, il giorno che vi è arrivato, si contempla calvo, con la barba bianca il giorno in cui va in pensione. E allora è finita; la vita è chiusa, l'avvenire serrato.

Ma come? Come ha potuto invecchiare tanto senza che alcun avvenimento significativo lo abbia mai scosso? Purtroppo è così. E largo sia fatto ai giovani, ai giovani impiegati! Se ne va ed è più infelice ancora, perché morirà quasi subito vedendo spezzata bruscamente la lunga e accanita abitudine all'ufficio, per la perdita degli stessi movimenti, delle stesse azioni, delle stesse faccende alle stesse ore.

Nell'attimo in cui entravo nell'albergo per la colazione mi venne consegnato un fascio enorme di lettere e di giornali. Provai una stretta al cuore come per la minaccia di una disgrazia imminente. Io le temo, le odio quasi le lettere perché sono una schiavitù. Questi piccoli rettangoli di carta che portano il mio nome fanno, così mi sembra, quando io li apro, un rumore di catene, il rumore delle catene che mi attaccano ai vivi che ho conosciuto, che conosco. Mi dicono tutte, sebbene scritte da mani diverse: Dove sei? Che fai? Perché sei sparito così, senza dire dove andavi? Con chi ti nascondi? Una aggiungeva ancora: Come vuoi che qualcuno si affezioni a te, se fuggi gli amici? E questo li offende ancora. E allora non mi si affezionino! Nessuno saprà dunque voler bene, senza aggiungervi un'idea di possesso, di dispotismo? Sembra che le relazioni non possano esistere senza condurre seco obblighi, pretese e anche un tantino di servitù. Basta sorridere alle cortesie di uno sconosciuto, e subito egli s'insinua nei fatti vostri e vi rimprovera di trascurarlo. Se poi c'è di mezzo l'amicizia ognuno pensa di avere dei diritti; le relazioni diventano doveri e i legami che uniscono implicano il nodo scorsoio. L'apprensione ancorché affettuosa, la gelosia che sospetta e verifica e attrae, in esseri che incontrandosi s'immaginano incatenati l'uno all'altro perché si sono piaciuti, non è altro che la molesta paura della solitudine dalla quale nessuno va esente. Ognuno di noi sentendosi circondato dallo spasmo, dallo spasmo incalcolabile in cui si agita il cuore e si dibatte il pensiero, va come un pazzo con le braccia aperte e con le labbra umide cercando un essere da avvinghiare. E stringe a destra, a sinistra, a caso, senza sapere, senza osservare, senza conoscere; non vuole essere più solo. Sembra che dica, dopo che ci ha carezzato la mano: Ora tu mi appartieni un poco; mi devi qualcosa di te, della tua vita, del tuo pensiero, del tuo tempo. Ecco svelato il perché tanti, che non si conoscono affatto, credono di amarsi; in tanti vanno con le mani nelle mani, la bocca suggellata alla bocca, senza nemmeno avere avuto il tempo di guardarsi. Bisogna che amino per non essere più soli, che amino d'amicizia, di tenerezza, ma che amino soprattutto per sempre. E lo affermano, lo giurano, si riscaldano, versano tutto il loro cuore in un cuore sconosciuto trovato il giorno prima, tutta la loro anima nell'anima della prima persona incontrata con una faccia attraente.

Da questa furia d'unirsi nascono mirabili equivoci, tanti sbagli indirizzati al dramma. Eppure si resta sempre soli nonostante gli esagitati sforzi, e insieme si resta liberi a dispetto di tutti i legami. Nessun essere umano può appartenere a un suo simile. Per me non è che una commedia allegra o animata dal demone del possesso, ma è meglio non darsi mai. L'uomo tormentato dal bisogno di essere il padrone di qualcuno, ha istituito la tirannia, la schiavitù e il matrimonio. Ma anche se uccide, tortura, incarcera, non riuscirà a dominare l'altrui volontà anche se chi subisce finge di sottomettersi.
Le madri posseggono forse i loro figlioli? Il piccolo essere appena uscito dal ventre materno non si mette forse a urlare per dire quello che vuole, per far conoscere il suo isolamento e affermare la sua indipendenza?

Credete sia possibile che qualche volta una donna diventi vostra? Sapete per caso ciò che pensa mentre dice di adorarvi? Baciate la pelle della donna, andate in estasi sotto le sue labbra; ma sarà sufficiente una sola parola da voi o da lei pronunciata fuori dal copione per insinuare fra voi appassionati amanti un odio implacabile!
Tutti i sentimenti teneri perdono la loro attrattiva se diventano imperiosi. Perché, piacendomi di vedere qualcuno e magari di parlargli, ne dovrebbe conseguire che mi è permesso di sapere quanto progetta e ciò che ama?
L'agitazione delle grandi città e dei piccoli paesi, di tutti i gruppi della società, la curiosità maligna, invidiosa, maldicente, calunniatrice, il desiderio incessante di relazioni, di affetti, di pettegolezzi e di scandali non derivano forse dalla nostra pretesa di giudicare la condotta altrui, come se tutti in differenti gradi ci appartenessero? E noi ci immaginiamo in realtà di avere dei diritti su di loro, sulla loro vita perché la vogliamo regolamentare come la nostra, sopra i loro pensieri perché noi li pretendiamo conformi ai nostri, sulle loro opinioni perché vogliamo adeguarle alle nostre altrimenti le riteniamo intollerabili, sui loro costumi perché, subordinandosi alla nostra morale, non ci sospingano a sdegnarli.



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A PARTIRE DAL 2011 SUL VELIERO CORSARO

IL FEULLETON

COMUNISTI





DIREZIONE

DI SCALZO




   

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