venerdì 8 ottobre 2010

Claudio Di ScalzoTellus Annuario. A Bruno Dell'Ava Tellus 24/25 . (Ristampa on line 5)

 

    Bruno Dell'Ava "Dona che la alza la cresta", particolare



ADDIO MIO CUSTODE

L'Alfabeto del Custode e la poesia sull'annuario Tellus (ora sul weblog Tellusfoglio, vedi link in calce) sono la traccia dell'arte e della scrittura di Bruno Dell'Ava. Farò il possibile perché il libro possa essere ripubblicato e ampliato con la parte inedita. E perché la Vita "non illustre"  di Bruno Dell'Ava non sia soltanto occasione di aneddoti orali, che pure sostanziano e sono base di ogni narrazione, ma anche che la sua avventura con i pennelli e la bic sia conosciuta. Qui di seguito la voce D come Donna. E la Nota biografica che pubblicai sull'annuario accanto alla poesia "Sopra Tutto". Era meglio che se al posto di Bruno morivano cento poeti e cento pittori inutili che circolano su carta stampata e on line! Claudio Di Scalzo discalzo@alice.it



D come Donna



Donna nera,
donna sola,
appoggiata al portone
aspettavi un’altra ora.

*

Vorrei una donna
che mi faccia fumare di meno
che mi faccia bere di meno
e che mi tenga una mano sulla testa.

*

Le donne
Si vedono molte donne in giro
ognuna vestita in modo diverso,
ognuna promette gioie diverse.

*

La donna è mobile.
Io direi fin troppo mobile.
O forse che l’uomo è troppo fisso?
Chi lo sa.
Comunque l’unione dei due opposti
crea moto uniformemente accelerato.


*

L’odio delle donne è peggio dell’odio degli uomini.

*

Minigonna verde e calze nere,
per una sera hai riempito la mia fantasia.

*

Le ragazze hanno curve piacevoli,
visi e mutandine a fiori.

*

Bellissima, giovanissima che te ne vai in giro con aria fiera,
abbassa la bandiera.
*

La donna ragno parla con voce flebile
come chi sa di essere una donna
nell’involucro del ragno.

*

La bellezza delle donne al mutar delle stagioni.
D’estate le donne sono più svestite e a casa ballano a ritmo di rock.

*

Si guarda quello che si muove, dissi accendendo un cerino.
Lei seguiva con gli occhi la fiammella.
Purtroppo stava aspettando un altro.

*

Tra la madre e la zia ci sono molti chilometri, ma in mezzo ci sei tu, ragazza felice. Sei un po’ grassa e ti muovi pigramente come a dire: non preoccuparti.

*

Siamo tutti masochisti.
Prima subiamo i genitori, poi gli insegnanti e alfine le donne.
*
La donna sola ha più paura, in due donne si fan coraggio, in dieci donne sono delle bestie.
 
*

Come riempire il vuoto.
Il vuoto si può riempire in mille modi:
bevendo,
fumando,
cagando,
pisciando,
parlando,
scrivendo,
dipingendo,
guardando la televisione,
un quadro, una donna, un amico,
un bar, una piazza, un vicolo ecc.
Ma l’unica cosa che riempie il vuoto
è il vuoto.
Cioè la donna.
 
*

Ritratto
Occhiali,
carina,
nervosa
 
*

L’uomo è lento
e la donna è veloce.
Assieme formano
un moto uniformemente
accelerato.

*

D’estate ci son delle bellissime donne quasi nude.


*
  
Le donne alla sveglia non dormivano: stavano con le coperte tirate sulla bocca e gli
occhi spalancati come uccelline.

*

Ci son donne che ti distruggono tranquillamente.

*

Nuda alla finestra poggiavi le tue tettone sul davanzale.

*

Vieni con me ragazza,
ti porterò sul lago,
ti farò vedere stelle filanti nel cielo
e coccodrilli che mangiano uccelli.
 
*
 
Due ragazze passano, pantaloni azzurri l’una, capelli lunghi l’altra. Vanno in salita con leggerezza.


°°°



LA PITTURA SELVATICA DI BRUNO DELL'AVA


Bruno Dell’Ava è nato a Chiavenna il 30 dicembre 1949. Si diploma al liceo artistico di Brera a Milano nel 1977. Da allora non ha più abbandonato la pittura che si innerva, con cesure originali, nella mappa di un’arte selvatica e spontanea con dipinti e scrittura di aforismi. Svolge il compito di custode al Parco del Paradiso di Chiavenna. La sua produzione ha interessato la redazione di Tellus, che già nel numero monografico sul Tramonto dell’uomo selvatico (n.7 ottobre 1992) indagava la condizione provinciale. Claudio Di Scalzo ha curato la monografia, L’alfabeto del custode, indagine sull’arte selvatica di Bruno Dell’Ava, che fungerà anche da catalogo per una serie di mostre finalmente esaustive sulla produzione pittorica e letteraria dell’artista.
(…) Bruno dell’Ava è un episodio di questa sontuosa, e a volte fosca, produzione estetica elaborata da solitari, da emarginati, da disadattati, ma in più compare l’estasi di nominare il mondo attraverso una fitta simbologia scritta e disegnata che ne fa un “caso” raro. Siamo infatti dinanzi ad un artista selvatico che prende la parola, non inurbandosi nella metropoli o passando attraverso tutte le fasi delle relazioni imposte dalle gallerie, e dal sistema criticomuseale, ma attraverso la lastra rotta della propria condizione provinciale dove il dialetto e l’italiano reinventato e il paradosso colorato entrano prima nelle intercapedini della condizione umana alpina e poi emergono con violenta passionalità. Insomma, il sistema nervoso dello scrittore-pittore diventa la fondazione di un sistema estetico fitto di rimandi che pulsa in totale autonomia (…)


LA NOTTE IN CUI MORI' BRUNO DELL'AVA
da Tellusfoglio (7.10.2010)

http://claudiodiscalzotellusfoglio.blogspot.com/2010/10/claudio-di-scalzo-la-notte-in-cui-mori.html

ADDIO MIO CUSTODE

dal weblog Tellus di Valtellina

 
 


 
 
Sull'Olandese Volante una sezione della Galleria Virtuale in random  verrà dedicata all'arte di Bruno Dell'Ava  - CDS
 
 
 
 

mercoledì 6 ottobre 2010

Claudio Di ScalzoTellus Annuario. Tellus 26 "Vite con ribellioni". (Ristampa on line 3)

 



Ri-pubblico, on line, quanto scrissi per la mostra di Michaux a Livorno, alla Galleria Peccolo, poi anche nell'annuario Tellus 26, VITE CON RIBELLIONI, 2004. Fu per me un'esperienza molto "formativa" avere tra le mani i disegni e i dipinti dello scrittore  e pittore francese. Sono grato al gallerista, e amico, Roberto Peccolo, perché in 35 anni, ora 40, non solo ho potuto curare alcuni cataloghi di Maestri dell'arte contemporanea, ma soprattutto perché nello scambio con lui ho frequentato artisti, ho fatto viaggi all'estero, visitato altre gallerie  e musei, e avuto, di prima mano, tatto e contatto con il mondo dell'arte. Dove nasce, dove si crea, dove si svolge, spesso tra un cascinale o della Toscana o del sud della Francia, e una metropoli (Parigi o Kassel o Berlino), uno studio caotico, dopo una bevuta o una passeggiata. L'umanità  e i caratteri dei diversi artisti, e più sono grandi più spesso sono umani con fragilità, ossessioni, miserie, improvvise generosità. Possiedo così disegni e dipinti che non avrei mai potuto acquistare. Dediche, fotografie. Questa è stata la mia "scuola" e mia "piega".
Accio in un giorno d'ottobre, lontano da Piazza della Repubblica e dal mare. E anche da uno studio, dove tra tele e volumi, e sogni colorati e spersi, discutiamo per ore su di un artista, una mostra fatta o da inventare, e sui nostri anni "temerari" per poi raggiungere la trattoria dove si mangia il vero cacciucco!



QUEL LEGGERO TRAIT D'UNION FRA PAROLA E IMMAGINE


Henri Michaux scrive nel 1938 “Plume”. E questo mentre in Europa avanza la pesantezza cadenzata dell’acciaio guerresco fascista. Per capire le movenze del Michaux scrittore, e nel contempo la delicatezza del pittore con le sue chine e i suoi acquarelli, tanto simili al morbido rotolare delle gocce sui vetri, bisogna ricordare quel personaggio surreale che frequenta il sogno conservando per sé gli umori di una realtà capovolta eppure plausibile.
Michaux pittore si fa imprestare dal personaggio la leggerezza della piuma per la punta dei suoi pennelli. In questo modo, e usando il suo IO come trait d’union, riesce a dipingere scaglie della mappa – estremamente vasta perché universo parallelo – dove la parola e l’immagine si incontrano, si sfidano, si uniscono. Un trattino ardito come un acrobata volteggiante sopra al fondale che, da sempre, segno pittorico e parola hanno in comune.
Questo IO provvisorio di Michaux, invadente ed aereo, vince la scommessa sullo sposalizio, da tanti ricercato e da pochi raggiunto, fra la pittura e la scrittura. Ma l’artista ha un carburante speciale, un miscuglio di tecniche orientali, formidabili girini di creatività, poi gli scatti a strappi delle matite imbizzarrite, poi le improvvise curve di sinuose pennellate in sboccio: quasi il ribollimento ritmico di una tensione creativa primaria che vorrebbe oltrepassare, proprio perché episodio di un IO vocato a interpretare e coniugare esperienze diverse, il riquadro della tela e della carta.
Michaux riesce a consegnarci immagini che evocano quanto non può venire scritto, perché il vocabolario non ne contempla il lessico, e si fa aiutare dal fantasma della scrittura quando i suoi turbamenti e viaggi non può disegnarli.
Gli acquarelli, i meidosems, tanto pungenti ed elettrici, le macchie segniche che si disfano in rotazioni bizzarre, sono tutti pulviscoli di questa rappresentazione.
L’IO, trait d’union, fa vivere ai due amanti, IMMAGINEPAROLA, uno stato di continuo movimento che può infischiarsene dei termini di spazio e di tempo, proponendo uno degli esiti più alti e suggestivi dell’arte Autre.
Ecco che non c’è da stupirsi se chi si trova davanti ai dipinti di Michaux vede immagini sul punto di diventare parole e fantasmatici volti che stanno per tornare all’infanzia. (CDS, dal catalogo della mostra)



                                         



Henri Michaux nasce a Namur, in Belgio, il 24 maggio 1989. Quando nel 1927 comincia a disegnare, si sente come un tarlo che stia mettendo piume inutili. Compie viaggi con la stessa facilità con cui l’insonnia prepara le fantasie a occhi aperti. Lo vedono in America del Sud, in Asia, in Africa del Nord. In ogni luogo trova qualche santuario di parole da violare.
Pubblica “racconti di viaggio”. E’ prodigo anche quando, supino su qualche letto di fortuna, si rassegna a non avere ascoltatori. Gli abitanti che incontra sembrano naufraghi della sua memoria, che si divertono a inventare per lui accoglienze che non ci saranno. Ricorda i profumi e li cataloga secondo i mesi. Il suo spazio pittorico è la dimora dove ospita tutti gli incontri più o meno dissipati. La sua prima mostra avviene nel 1936. La moglie, che perderà nel 1948 per un incidente, ritorna nei suoi acquarelli. Se qualcuno gli chiede come, risponde che si aspetta lacrime colorate dalla morta. Negli anni cinquanta si stabilisce definitivamente a Parigi. La “scrittura calligrafata”, che pretende di avere inventato, si riproduce con liquidi torbidi e rischi di desolazione su molteplici tele. I suoi numerosi libri vanno di pari passo con la prodigiosa estensione dei segni.
Forse la sua frenesia appartiene a un unico grembo creativo. E difatti, provando la mescalina, è risucchiato da cunicoli molli e protettivi. Le gallerie e i musei si appropriano di questa continua risorgenza segnica, così
come le biblioteche catalogano i suoi titoli. Muore a Parigi il 19 ottobre 1984. E il suo atelier, visitato dalla luce radente del mattino, sembrerà un presepio abbandonato, dopo.
“Il poeta Flavio Ermini ha sfogliato il catalogo sulla mostra di Michaux”, mi confida Peccolo, “e all’istante ha deciso di illustrare con opere dell’artista il n. 65 di Anterem, Il perturbante, del dicembre 2002. Mi piacciono questi scambi fra la galleria e le riviste”.


Da 35 ANNI DI ESTETICI ED EROICI FURORI, (catalogo curato da Claudio Di Scalzo per i 35 anni della galleria - 1969/2004) in TELLUS 26, "Vite con ribellioni, rinomate e sconosciute"




 




Claudio Di Scalzo Tellus Annuario. "Vite con ribellioni" 26 - Da Michaux al barbiere di Nodica Paolo Fatticcioni

 

                                                              Copertina di Bruno Magoni. "Bakunin". Olio su carta



LA RIBELLIONE DONGIOVANNESCA DEL PARIGINO SULL'ACQUA

L'Annuario TELLUS 26, "Vite con ribellioni, rinomate e sconosciute" lo si intende ancor meglio a partire da questo sottotitolo sulle ribellioni "sconosciute". Cioè non illustri, da microstoria, da paese, provinciali, fino a quella del Pazzo, il mio amico barbiere di Nodica, o quella di Kocìs a Carrara. E con scoperte per la filologia rivoluzionaria: Cecco Bertelli di Vecchiano, anarchico che intende partecipare alla Comune di Parigi. "Vite con ribellioni" è anche la mia fatica più ampia in materia di estetica, di rapporto con l'avanguardia, con l'arte situazionista e lettrista, con l'Art Brut, e raccoglie miei sparsi cataloghi, per la Galleria Peccolo di Livorno, dove ebbi la fortuna di frequentare e conoscere esponenti di quelle correnti secondo me tra le più corrosive in materia di arte che intende cambiare il mondo. Non riuscendoci fra l'altro. Ma, stamani, ricordare le mie frequentazioni nella campagna livornese, con Goldberg, il pittore di New York che con Pollock spargeva dripping, mi colora la giornata.  

Il volume contiene anche la "ribellione" di un baldo Maupassant nel Sud della Francia. E si sa che il nostro "toro parigino" tra un racconto e l'altro stava sull'acqua e sulle gonne delle belle donne. Altri tempi. Discorrere troppo di poesia e arte è come fare l'amore non togliendosi le mutande! Allora la letteratura era anche vitalismo, gioia, e non impotente masturbazione cerebrale. Al chiuso con Flaubert all'aperto con il nostro la scrittura incontrava il flusso vitale. Poi magari nascevano capolavori. Opere indimenticabili tra colore e la sua danza. Gli autori ci si bruciavano ad inventarle ma oggi danno ancora la scossa.  Questo m'interessa, non altro. Nell'annuario ho raccolto quelli che me l'hanno data. Claudio Di Scalzo detto Accio


Maupassant. Da“Sur l'eau”.




Saint Tropez, 12 aprile.

In mattinata, verso le otto, siamo salpati da Saint Raphaël con una forte brezza di nord ovest. Il mare, calmo nel golfo, era tutto bianco, come uno strato di saponata. Il terribile vento del Fréjus, che soffia quasi ogni mattina, sembrava incattivirsi sopra la superficie come fa una belva per dilaniare la preda, e così piccole strisce di schiuma si sparpagliavano per poi subito ricomporsi. I responsabili del porto ci avevano assicurato che le raffiche sarebbero cessate verso le undici e noi avevamo deciso di metterci in viaggio con tre terzaroli e la piccola vela triangolare. Il canotto fu deposto sul ponte ai piedi dell'albero e il Bel Ami una volta uscito dalla diga sembrò fuggire. Quantunque sguarnito quasi di vele, non l'avevo mai scoperto correre così. Si sarebbe detto che non toccasse l'acqua e nessuno avrebbe pensato che portasse nella sua larga chiglia, profonda circa due metri, una verga di piombo di milleottocento kg di zavorra, e in più tutto quello che avevamo a bordo, attrezzi, ancore, catene, canapi e mobili.

Rapidamente traversammo il golfo in fondo al quale si getta l'Argens, e come fummo riparati dalle coste la brezza cessò quasi del tutto. Là comincia la regione selvaggia, cupa e superba che chiamano tuttora il paese dei Maures. E' una lunga penisola di montagne con cento chilometri e più di spiaggia.

Saint Tropez, all'entrata del superbo golfo, già chiamato golfo di Grimaud, è la capitale di questo piccolo regno saraceno, i cui villaggi costruiti quasi tutti in cima a ripide montagne che li mettevano al sicuro dagli assalti, sono ancora pieni di case moresche con i loro archi, le loro minuscole finestre e i loro cortili interni dove hanno germogliato palmizi che ora superano i tetti. Se entriamo a piedi nelle valli sconosciute di questo singolare gruppo di montagne, possiamo scoprire una contrada estremamente selvaggia, senza strade, senza vie, senza nemmeno i sentieri, senza borghi, senza case. Di quando in quando, dopo sette o otto ore di cammino, appare una casupola abbandonata, o abitata da un'umile famiglia di carbonai.

I monti dei Maures sembra abbiano un loro particolare sistema geologico; una flora che non si trova da altre parti, la più varia d'Europa, dicono; e immense foreste di pini, di sugheri e di castagni. Tre anni fa compii un'escursione nel cuore di questo paese, e sempre la rammento, alle rovine della Certosa della Verne. Se domani sarà tempo buono, ci ritornerò. Una nuova dinamica segue il mare andando da Saint Raphaël a Saint Tropez.

Lungo tutta questa magnifica via aperta tra le foreste, sopra una spiaggia amena, cercano di dare vita a delle stazioni invernali. La prima dovrebbe essere Saint Aigulf, che ha un aspetto particolare. In mezzo al bosco di abeti, che scende fino alla marina, si aprono in tutte le direzioni suggestive strade. Neppure una casa compare, ma soltanto il tracciato delle vie ancora ingombrate da rami. Ecco le piazze, i crocevia, i boulevards. I loro nomi sono scritti su lastre metalliche. Boulevard Ruysdaël, Boulevard Rubens, Boulevard Van Dyck, Boulevard Claude Lorrain. Ci si chiede: perché tutti questi pittori? Perché? La società ha detto: qui sarà una stazione di artisti! Proprio come Dio prima di accendere il sole. La società! Nel resto del mondo non sanno quante speranze, quanti pericoli, quanto danaro guadagnato e rimesso significhi questa parola sulle sponde del Mediterraneo. La società! parola misteriosa, fatale, impenetrabile e ingannatrice. Ma in questo luogo sembra tuttavia che la società veda fiorire le sue speranze, perché ha già compratori e, i migliori, tra gli artisti. Si legge qua e là: tratto di terreno acquistato dal signor Carolus Duran; tratto del signor Clairin; tratto della signorina Croizette, ecc. Intanto, chi lo sa? Le società del Mediterraneo non sono floride: le loro speculazioni impetuose vanno a finire con terribili fallimenti. Chiunque abbia guadagnato diecimila lire in un campo, compra terreni del prezzo di dieci milioni a venti soldi il metro per rivenderli a venti lire. E disegna boulevards, conduce acque, fabbrica l'officina del gas, aspettando l'amatore. Arriva il capitombolo, non l'amatore.

Vedo lontano davanti a me delle torri e dei gavitelli che indicano gli scogli a fior d'acqua all'imboccatura del golfo di Saint Tropez. La prima torre la chiamano Torre dei Sardinaux e indica un vero banco di piccoli scogli, alcuni dei quali mostrano le loro teste brune; e la seconda l'hanno battezzata Gavitello della seppia con l'olio. Giungiamo all'entrata del golfo che s'incunea per un lungo tratto, profondamente, fra due sponde di montagne e di foreste fino al villaggio di Grimaud, costruito sopra una cima, là sul fondo. L'antico castello dei Grimaldi, un alto maniero che domina il villaggio, appare tra la nebbiolina come un'evocazione da racconto leggendario. Cessa il vento, e il golfo sembra un lago immenso e calmo dove noi entriamo pian piano approfittando degli ultimi soffi della burrasca mattutina. A dritta del nostro transito, ecco Saint Maxime, un piccolo porto bianco che si specchia nell'acqua dove la case si riflettono capovolte, ma precise come sono sulla riva: dirimpetto appare Saint Tropez protetta da un antico forte.

Alle undici il Bel Ami è ormeggiato alla sponda, a lato del vaporetto che fa servizio da Saint Raphaël. Solamente il Leone di mare, vetusto battello per piacevoli gite, e una vecchia diligenza che porta le lettere e che viaggia la notte sull'unica strada che attraversa queste montagne, mettono gli abitanti del piccolo porto tanto isolato in comunicazione col resto del mondo. E' una vezzosa e ingenua figlia del mare, una di quelle cittadine pacifiche e modeste, cresciute nell'acqua come una conchiglia, nutrite di pesci e d'aria marina e che producono marinai. Sul porto è eretta una statua di bronzo al balì di Suffren. Vi si sente l'odore del pesce e del catrame che arde, vi si sente l'odore d'acqua salsa e di barca. Sui selciati delle strade brillano come perle le squame delle triglie; e lungo i muri del porto una quantità di vecchi marinai zoppi e acciaccati che si scaldano al sole sui banchi di pietra. Di quando in quando ragionano dei loro viaggi di mare, delle loro antiche conoscenze e dei nonni dei monelli che corrono loro vicini. Hanno facce e mani aggrinzite, annerite e disseccate dai venti, dalle fatiche, dalle nebbie, dai caldi dell'Equatore e dai ghiacci dei mari del Nord, perché gironzolando per gli oceani hanno visto il sopra e il sotto di tutto il mondo, il rovescio di tutte le terre e di tutte le latitudini. Passa davanti a loro, appoggiato a un bastone, l'anziano capitano di lungo corso che comandò le Tre sorelle, o i Due amici, o la Maria Luisa, o la Giovine Clementina. Tutti lo salutano, come i soldati che rispondono all'appello, con una litania di buongiorno, capitano! Modulati in diversi toni. Siamo in un paese di mare, cittadina di gente per bene ricca di sale e di coraggio che combatté in tempi lontani contro i saraceni, contro il Duca d'Angiò, contro i corsari barbareschi, contro il Connestabile di Borbone o Carlo V e il Duca di Savoia e il Duca di Ēpernon.

Nel 1637 gli abitanti, i padri di questi tranquilli borghesi, respinsero senza alcun aiuto, una flotta spagnola; e ogni anno si rinnova, con vivissimo ardore, un simulacro dell'attacco e della difesa che riempì la città di panico e di urla e ricorda in modo singolare i grandi divertimenti popolari del medioevo. Nel 1813 la città respinse allo stesso modo una flottiglia inglese. Oggi pesca. Pesca i tonni, le sardine, i saraghi, le aragoste, tutti pesci tanto graziosi di questo mare azzurro, e nutre essa sola una parte del lido.

Dopo essermi cambiato gli abiti andai sulla riva; sentii suonare mezzogiorno e vidi due uomini attempati, scrivani di notaio o di avvocato, che se ne andavano a desinare, molto simili a cavalli da tiro liberati un momento affinché mangino l'avena in fondo al sacco.

Oh libertà! Libertà! Unica felicità, unica speranza e unico sogno! Fra tutti gli umili di tutte le classi, di tutti gli uomini che quotidianamente combattono l'aspra battaglia della vita, gli scrivani sono i più da compatire, sono i più malmessi. Questo non si conosce né lo si crede; perché gli scrivani sono impotenti a lamentarsi, a ribellarsi, restano legati, imbavagliati nella loro stordente pratica e basta. Eppure hanno studiato qualcosa, conoscono la legge e sono forse baccellieri. Ricordo a questo proposito questa dedica di Vallès: "A tutti coloro che nutriti di greco e di latino sono morti di fame". Sapete quanto guadagnano questi miserabili? Una manciata di franchi l'anno. Impiegati nei tetri uffici, impiegati nei grandi ministeri, devono leggere ogni mattina sulla porta delle loro stanze ridotte a prigioni i celebri versi di Dante: "Lasciate ogni speranza o voi che entrate". Aprono la porta una prima volta a vent'anni e vi restano fino ai sessant'anni e forse più, e durante questo lungo periodo mai nulla avviene di nuovo per loro. Tutta quanta la loro esistenza trascorre nei piccoli uffici malinconici, sempre invariabili, tappezzati di buste verdi. Vi entrano giovani, nell'età delle ardite speranze; e vi escono vecchi, vicini a morire. La grande mole di ricordi che noi raccogliamo durante la vita, gli avvenimenti imprevisti, gli amori dolci o tragici, i viaggi avventurosi, i molteplici casi di un'esistenza libera, sono sconosciuti a questi forzati. Tutti i giorni, tutte le settimane, tutti i mesi, tutte le stagioni, tutti gli anni si rassomigliano. Alla stessa ora si arriva, alla stessa ora si fa colazione, alla stessa ora si esce; e questo dai venti ai sessant'anni. Quattro avvenimenti soltanto fanno epoca: il matrimonio, la nascita del primo figlio, la morte del padre e della madre; nient'altro; piano... gli avanzamenti! Non sanno niente della vita ordinaria gli scrivani, niente del mondo. Ignorano le briose giornate quando il sole inonda le vie e il girovagare nei campi, perché non possono uscire prima dell'ora fissata dal regolamento.

Si rendono prigionieri alle otto del mattino; e il carcere è aperto alle sei del pomeriggio, quando imbrunisce. Ma in compenso ogni anno per quindici giorni c'è il diritto, diritto mal digerito dal capoufficio che impone il mercanteggiamento e i sottesi rimproveri, di restare chiusi in casa; infatti dove potrebbero andare senza danaro per le ferie? Il legnaiolo salendo sugli alberi ha una sua privata altezza, il cocchiere gira per le strade, il macchinista del treno attraversa boschi e pianure e montagne, si sposta continuamente dalle periferie delle città al vasto orizzonte azzurro dei mari. L'impiegato non lascia mai l'ufficio, e in esso sta come salma vivente nella bara; e nel medesimo piccolo specchio in cui si è guardato da giovane, con i baffi biondi, il giorno che vi è arrivato, si contempla calvo, con la barba bianca il giorno in cui va in pensione. E allora è finita; la vita è chiusa, l'avvenire serrato.

Ma come? Come ha potuto invecchiare tanto senza che alcun avvenimento significativo lo abbia mai scosso? Purtroppo è così. E largo sia fatto ai giovani, ai giovani impiegati! Se ne va ed è più infelice ancora, perché morirà quasi subito vedendo spezzata bruscamente la lunga e accanita abitudine all'ufficio, per la perdita degli stessi movimenti, delle stesse azioni, delle stesse faccende alle stesse ore.

Nell'attimo in cui entravo nell'albergo per la colazione mi venne consegnato un fascio enorme di lettere e di giornali. Provai una stretta al cuore come per la minaccia di una disgrazia imminente. Io le temo, le odio quasi le lettere perché sono una schiavitù. Questi piccoli rettangoli di carta che portano il mio nome fanno, così mi sembra, quando io li apro, un rumore di catene, il rumore delle catene che mi attaccano ai vivi che ho conosciuto, che conosco. Mi dicono tutte, sebbene scritte da mani diverse: Dove sei? Che fai? Perché sei sparito così, senza dire dove andavi? Con chi ti nascondi? Una aggiungeva ancora: Come vuoi che qualcuno si affezioni a te, se fuggi gli amici? E questo li offende ancora. E allora non mi si affezionino! Nessuno saprà dunque voler bene, senza aggiungervi un'idea di possesso, di dispotismo? Sembra che le relazioni non possano esistere senza condurre seco obblighi, pretese e anche un tantino di servitù. Basta sorridere alle cortesie di uno sconosciuto, e subito egli s'insinua nei fatti vostri e vi rimprovera di trascurarlo. Se poi c'è di mezzo l'amicizia ognuno pensa di avere dei diritti; le relazioni diventano doveri e i legami che uniscono implicano il nodo scorsoio. L'apprensione ancorché affettuosa, la gelosia che sospetta e verifica e attrae, in esseri che incontrandosi s'immaginano incatenati l'uno all'altro perché si sono piaciuti, non è altro che la molesta paura della solitudine dalla quale nessuno va esente. Ognuno di noi sentendosi circondato dallo spasmo, dallo spasmo incalcolabile in cui si agita il cuore e si dibatte il pensiero, va come un pazzo con le braccia aperte e con le labbra umide cercando un essere da avvinghiare. E stringe a destra, a sinistra, a caso, senza sapere, senza osservare, senza conoscere; non vuole essere più solo. Sembra che dica, dopo che ci ha carezzato la mano: Ora tu mi appartieni un poco; mi devi qualcosa di te, della tua vita, del tuo pensiero, del tuo tempo. Ecco svelato il perché tanti, che non si conoscono affatto, credono di amarsi; in tanti vanno con le mani nelle mani, la bocca suggellata alla bocca, senza nemmeno avere avuto il tempo di guardarsi. Bisogna che amino per non essere più soli, che amino d'amicizia, di tenerezza, ma che amino soprattutto per sempre. E lo affermano, lo giurano, si riscaldano, versano tutto il loro cuore in un cuore sconosciuto trovato il giorno prima, tutta la loro anima nell'anima della prima persona incontrata con una faccia attraente.

Da questa furia d'unirsi nascono mirabili equivoci, tanti sbagli indirizzati al dramma. Eppure si resta sempre soli nonostante gli esagitati sforzi, e insieme si resta liberi a dispetto di tutti i legami. Nessun essere umano può appartenere a un suo simile. Per me non è che una commedia allegra o animata dal demone del possesso, ma è meglio non darsi mai. L'uomo tormentato dal bisogno di essere il padrone di qualcuno, ha istituito la tirannia, la schiavitù e il matrimonio. Ma anche se uccide, tortura, incarcera, non riuscirà a dominare l'altrui volontà anche se chi subisce finge di sottomettersi.
Le madri posseggono forse i loro figlioli? Il piccolo essere appena uscito dal ventre materno non si mette forse a urlare per dire quello che vuole, per far conoscere il suo isolamento e affermare la sua indipendenza?

Credete sia possibile che qualche volta una donna diventi vostra? Sapete per caso ciò che pensa mentre dice di adorarvi? Baciate la pelle della donna, andate in estasi sotto le sue labbra; ma sarà sufficiente una sola parola da voi o da lei pronunciata fuori dal copione per insinuare fra voi appassionati amanti un odio implacabile!
Tutti i sentimenti teneri perdono la loro attrattiva se diventano imperiosi. Perché, piacendomi di vedere qualcuno e magari di parlargli, ne dovrebbe conseguire che mi è permesso di sapere quanto progetta e ciò che ama?
L'agitazione delle grandi città e dei piccoli paesi, di tutti i gruppi della società, la curiosità maligna, invidiosa, maldicente, calunniatrice, il desiderio incessante di relazioni, di affetti, di pettegolezzi e di scandali non derivano forse dalla nostra pretesa di giudicare la condotta altrui, come se tutti in differenti gradi ci appartenessero? E noi ci immaginiamo in realtà di avere dei diritti su di loro, sulla loro vita perché la vogliamo regolamentare come la nostra, sopra i loro pensieri perché noi li pretendiamo conformi ai nostri, sulle loro opinioni perché vogliamo adeguarle alle nostre altrimenti le riteniamo intollerabili, sui loro costumi perché, subordinandosi alla nostra morale, non ci sospingano a sdegnarli.



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A PARTIRE DAL 2011 SUL VELIERO CORSARO

IL FEULLETON

COMUNISTI





DIREZIONE

DI SCALZO